Il Mental Coach Civitarese: “Problemi psicologici e distanziamento, vi racconto come vivono i giocatori”

La redazione di Milannews.it ha contattato Roberto Civitarese, mental coach di diversi calciatori professionisti, per commentare sia le possibili reazioni degli atleti alla lunga sosta per l’emergenza Coronavirus sia per ribadire l’importanza della componente mentale a certi livelli. Queste le domande e le risposte:

Tra gli argomenti legati all’emergenza Coronavirus, sicuramente, vi è il taglio degli stipendi. In queste settimane si è assistito ad atteggiamenti opposti: da un lato vi è stato chi non ha pensato un momento a tagliare il proprio ingaggio mentre dall’altro vi è chi, ad esempio citando Adebayor o Kroos, si è mostrato un po’ più restio. Che spiegazione darebbe a questi atteggiamenti?

“Credo che la risposta ad una richiesta di rinunciare a qualcosa nasca da dove poniamo la nostra attenzione. Se sono focalizzato su me stesso, è chiaro che nel momento in cui mi viene chiesto di privarmi di qualcosa sono maggiormente negativo. Se invece mi focalizzo su una situazione più ampia è molto probabile che possa rispondere positivamente. Credo che la questione sia più ampia e vada vista oltre l’aspetto economico. Spesso sento la frase rivolta ai calciatori che recita “oh ma con quello che guadagnano”, questo accade perchè il pubblico è focalizzato principalmente sullo stipendio. La vita del calciatore va ben oltre questo aspetto. Un professionista è circondato da relazioni e problematiche comuni come ad esempio separazioni o altri disagi famigliari. Per rispondere alla domanda il segnale che dà un calciatore che dona o meno dipende da dove quest’ultimo pone l’attenzione in questo tipo di richiesta. Quando ci si focalizza su una situazione più ampia, come ad esempio è successo a Barcellona, i giocatori hanno deciso di tagliare i loro ingaggi per andare incontro alle esigenze degli altri dipendenti che stavano vivendo una situazione di difficoltà ancora più grande”.


In questi due mesi di quarantena siamo stati chiamati al distanziamento sociale. Nel mondo del calcio, in particolare, i compagni di squadra sono stati privati dell’allenamento in gruppo e del clima dello spogliatoio. Questa mancanza può rafforzare la coesione del gruppo o indebolirla?

“Ci sono diverse considerazioni da fare. Per prima cosa bisogna inquadrare quali sono state le difficoltà che hanno vissuto i calciatori in questo distanziamento sociale. Sostanzialmente l’ho circoscritta a due aspetti. Il primo è l’interruzione dell’attività sportiva, un impegno che coinvolge l’uomo sia nell’aspetto fisico che mentale. Il calciatore nella sua routine ha l’abitudine di utilizzare delle energie in vista di una gara settimanale, ben diverso da un’ atleta olimpionico che si prepara per una gara con intervalli molto più lunghi. Il venire meno di questo aspetto ha rotto una routine professionale e psicofisica. Il calciatore non è un interruttore che si spegne e riaccende a comando. Noi ritroveremo atleti e squadre come all’inizio di una preparazione estiva. Il secondo aspetto è il distanziamento sociale che ha coinvolto tutti ma in maniera diversa. Chi è sposato o ha dei figli ha avuto il tempo di trascorrere l’isolamento sociale in un contesto agevole. Molti calciatori tuttavia, lontani dalle famiglie d’origine o non sposati, si sono trovati a vivere l’isolamento da soli e questa non è la normalità ma una difficoltà da affrontare. Nonostante la priorità sia la salute propria e dei propri famigliari restare da soli per due mesi è un fatto decisamente anomalo. Bisogna quindi considerare che qualsiasi situazione è una medaglia che ha due facce: una positiva e una negativa. Questo vale per la vita di tutti i giorni e per qualsiasi aspetto. Le situazioni evidenziate, ovvero la volontà di rivedere i propri compagni o la paura nel ricongiungersi, sono due facce della stessa medaglia. Il calciatore può desiderare di tornare alla normalità e utilizzare la ripartenza come stimolo motivazionale oppure per l’incertezza dello scenario può vivere la ripresa dell’attività con timore. Da cosa dipende? Da come il calciatore legge e vive questa situazione.”

Diversi sono stati i calciatori colpiti dal Coronavirus. Nelle recenti dichiarazioni di quest’ultimi tra cui il dirigente rossonero Maldini è stata sottolineata la difficoltà fisica nel sostenere qualsiasi tipo di sforzo o di allenamento. Questo aspetto può condizionare un loro ritorno in campo sapendo quello che hanno passato avendo vissuto in prima persona il contagio?

“E’ simile al concetto che esprimevo prima. La difficoltà nel tornare ad allenarsi deriva sia da un aspetto fisico che mentale ed è tipica di chi sta facendo un percorso di riabilitazione. Credo che sarà il campo, seppur in una situazione anormale, e la capacità di concentrazione del calciatore a dare una risposta. Nel momento in cui un calciatore compie un esercizio, se riesce a concentrarsi sull’attività che sta facendo riesce ad isolarsi da tutto ciò che gli sta accadendo intorno. Quando parliamo di concentrazione è proprio la capacità di focalizzarsi su un obiettivo che porta alla cancellazione di tutti gli altri pensieri.   Indipendentemente dal fatto che io abbia avuto l’infezione o meno, se riesco ad essere concentrato riesco a raggiungere l’obiettivo. Per quanto riguarda Maldini, è sicuramente un ragazzo che sulle spalle ha molte aspettative dettate dalla grandezza calcistica della sua famiglia che, senza dubbio, lo hanno abituato ad affrontare certe difficoltà proiettandosi al futuro e spingendolo a confermare il suo talento. Questo aspetto è tipico dei calciatori giovani. Ho avuto il piacere di conoscere un altro giovane calciatore del Milan, Gabbia, che essendo un calciatore desideroso di scrivere il proprio futuro certamente non vedrà l’ora di tornare in campo e proseguire il percorso di crescita e maturazione. Aggiungo che la giovane età dà un po’ più di incoscienza rispetto ai calciatori più esperti e questo, spesso, è un vantaggio”.

In caso di ripresa del calcio lo scenario che ci attende sarà quello degli stadi a porte chiuse. In una situazione del genere chi può trarne maggiormente vantaggio: il calciatore che patisce maggiormente le pressioni del pubblico o il campione dalla forte personalità che riesce ad eclissarsi dall’anomalia di questa situazione?

“Il calcio senza pubblico è uno sport che si impronterà molto di più sull’aspetto tecnico in quanto sarà privo dell’aspetto emozionale. E’ un po’ come se togliessimo l’anima a questo sport riducendolo ad un esercizio tecnico. Se così è, chi ne trae vantaggio? E’ avvantaggiato il giocatore e il gruppo che hanno maggiore qualità tecnica. Un calcio di rigore al 93’ che determina un risultato è chiaro che ha una pesantissima componente emozionale. Baggio che sbaglia il calcio di rigore nella finale dei mondiali nel 94’ non è un errore dovuto al fatto che il calciatore non sia in grado di batterlo ma è un caso in cui la parte tecnica non ha avuto il sopravvento sulla componente emozionale del momento che si stava vivendo. Pensando invece al calcio di rigore battuto da Totti contro l’Australia nel mondiale 2006, l’ex Roma ha dichiarato che ha preso il pallone perchè nessun altro si faceva avanti. Gli altri calciatori avevano come pensiero dominante la paura di sbagliare. In quel momento il numero 10 ha pensato all’esecuzione tecnica inconsapevolmente senza concentrarsi su quella emozionale. Questo descrive come l’aspetto emozionale giochi un ruolo fondamentale. Il pubblico fa il 70/80 % della componente emozionale e quindi ne trae vantaggio la squadra più tecnica e con meno pressioni dal punto di vista della classifica e dell’ambiente. Nell’assenza di pubblico diventa tutto un po’ più piatto dal punto di vista emozionale.”

Parliamo di Paquetà. Qualche mese fa il calciatore brasiliano aveva accusato un attacco di ansia dovuto sia ad uno scarso ambientamento a Milano sia alle ripetute esclusioni. Spesso i calciatori sudamericani soffrono della cosiddetta “saudade” per il proprio paese e questo porta ad una difficoltà di integrazione. Come spiega la reazione del centrocampista rossonero?

“E’ una reazione universale e non solo sudamericana. Ho lavorato con giocatori italiani all’estero, ad esempio Borini, che hanno dovuto affrontare la questione di ambientamento. Vi è poi chi per natura trova più facilità ad adattarsi e chi ha più difficoltà. Le abitudini diverse, la lingua e il contesto sociale sono sicuramente elementi rivelanti nell’adattamento. L’ambientamento è un aspetto che si trova ad affrontare chiunque esca dalla zona di comfort. Faccio un esempio: quando Piatek a Genova porta dei risultati, tolto da quel contesto e inserito in uno nuovo affronta delle difficoltà. Non è cambiato il giocatore ma il contesto in cui si trova. La capacità di adattarsi è diversa: chi lo fa in tempi rapidi, chi è un po’ più lento e chi non riesce a farlo ed è costretto ad andare via. Bisogna tenere presente che la parte emozionale è fondamentale: quando gestiamo questa parte troveremo facilità nell’affrontare situazioni, se invece non impariamo a gestirle troveremo difficoltà e si vivranno momenti di ansia e sconforto. Questo ovviamente vale anche per i calciatori. La situazione di Paquetà può dipendere da una nostalgia per il proprio paese ma può darsi anche che stia vivendo una situazione di insicurezza e di debolezza derivante da un fattore esterno o interna all’ambiente di lavoro. Se questa difficoltà non viene affrontata  poi si alimenta e porta all’impossibilità di scendere in campo. 

Potrebbe anche dipendere dal diverso modo di intendere il calcio a livello europeo rispetto a quello brasiliano? Molte critiche rivolte a Paquetà sono arrivate per la scarsa capacità di risultare incisivo nell’ultimo passaggio o in zona goal.

“Sicuramente potrebbe dipendere anche da questo. Quando si inizia una nuova sfida professionale è chiaro che ho delle aspettative che devo tradurre in obiettivi personali. Quando poi lungo questo percorso si presentano delle difficoltà, che cosa succede? Il mondo che mi circonda mette in evidenza l’errore. In questo momento o io sono attrezzato a affrontare la difficoltà oppure la problematica diventa la realtà e vivo nel problema. E come si fa a venirne fuori? O lascio l’Italia e torno in Brasile o vado a giocare in un altro campionato oppure resto e cerco di risolvere il problema. Lasciare l’Italia non è la soluzione alla problematica ma è la fuga rispetto ad una situazione di difficoltà. La stessa che posso ritrovare anche in Brasile, in Inghilterra o in Francia. Per questo invito i tifosi a sostenere i giocatori, ad incoraggiarli. Il meccanismo mentale che i calciatori dovrebbero adottare è capire come uscire dalle difficoltà. Come posso fare per tornare il calciatore di prima? Bisogna chiedere al proprio cervello di trovare la soluzione più efficace che ciascuno ha già dentro di sé. Se diversamente ci si concentra sulla difficoltà  dicendo “perchè proprio a me?” o pensando di vivere una stagione negativa, nel momento in cui dico che questa è “un’annata no” sto creando la convinzione che qualsiasi cosa accadrà sarà negativa, che è l’esatto opposto del cercare una soluzione efficace. Di fronte ad una difficoltà se sapessi come utilizzare tutte le mie risorse in modo corretto, riuscirei a superare qualsiasi ostacolo. Il coach offre le istruzioni su come utilizzare al meglio le risorse, non fornisce soluzioni preconfezionate.Conosco da diversi anni De Silvestri, un calciatore che, come molti altri, ha subito un infortunio importante al ginocchio. Ha affrontato questo ostacolo  battendo il record sul tempo di recupero. Com’è stato possibile? Forse ha un fisico più prestante di altri? No, ha lo stesso fisico di molti altri calciatori ma ha avuto un approccio diverso nell’affrontare il grave infortunio.”

Su Gabbia.


“Gabbia era nella lista dei partenti a gennaio. Dove è stata la capacità di Matteo nel guadagnarsi una conferma? Aveva due possibilità: o guardo il problema ovvero non ho trovato spazio e cerco una squadra oppure guardo alla soluzione ovvero resto al fianco di grandi campioni e imparo da loro. L’occasione non dipende da me ma da fattori esterni. Come mi alleno nell’arco della settimana, quanto posso migliorare, questo dipende da me, da come e quanto lavoro. Quando un calciatore entra in campo e leggo “grande personalità da veterano” non è un fatto casuale ma un qualcosa di costruito con un lavoro personale su sé stesso che ha contribuito a creare una grande personalità. Lui gioca vicino ad un calciatore come Romagnoli che è stato anche compagno di De Silvestri alla Sampdoria a 20 anni. Il capitano del Milan è un giocatore dalla grandissima personalità che mi aveva colpito sin dall’under 15 in nazionale. Ricordo una sua partita a Genova contro l’inter in cui la Samp non perdeva in casa da tantissimo. Al 91’ fece un fallo da rigore su un attaccante dell’Inter che costò la sconfitta alla sua squadra. La reazione del giocatore il giorno dopo è stata quella di allenarsi a mille il giorno dopo senza subire la pressione di una responsabilità, che pur aveva, di aver determinato una situazione negativa. Il modello mentale di quel calciatore è quello di eliminare la situazione negativa e di amplificare la situazione positiva. Se io giovane calciatore, quindi, mi affianco di un calciatore con quella personalità è chiaro che cresco con un modello forte di personalità.”


Ibrahimovic ha influito sicuramente nella stagione rossonera. Quanto è importante in uno spogliatoio una figura dalla forte personalità come lo svedese che catalizza le pressioni esterne?

“Io ricordo di essere stato ospite a Sky quando si ventilava la possibilità che il Milan firmasse lo svedese e dissi che Ibrahimovic avrebbe portato al Milan una mentalità vincente. I rossoneri avevano bisogno di un cambio di mentalità che con gli allenatori non era arrivato. Quando una società cambia un tecnico in corsa è chiaro che lo cambia per dare una scossa non tanto dal punto di vista tecnico ma nell’ambiente. Ritengo sia Giampaolo che Pioli, nella gestione dello spogliatoio, due allenatori validi ma non sono riusciti a dare una scossa. Cosa che è riuscita a Ibrahimovic. Lo svedese sta al Milan così come Ronaldo sta alla Juventus. L’età non fa una differenza dal punto di vista mentale. Al Milan serve che lui sia nello spogliatoio e che gli trasmetta la voglia di vincere e la mentalità di guardare ai propri punti di forza. Ibrahimovic è stato determinante perchè ha influito in maniera decisa e rapida sull’aspetto mentale della squadra. Quando si pensa alle sue dichiarazioni che sono bollate come presuntuose, io mi chiedo: “quale è la differenza tra la presunzione e la consapevolezza della propria forza?” E’ chiaro che la modalità con cui esprime il concetto è forte ma dipende anche dalla storia di un uomo. Io tutta la vita vorrei un giocatore come Ibrahimovic nella mia squadra: forte dal punto di vista mentale e dal punto di vista tecnico. La sua forza e il suo approccio all’allenamento alza lo standard del resto della squadra.”

Fonte: Milannews.it

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