Il Mental Coach dei calciatori: “Florenzi, Dzeko, Schick, gli infortuni, vi spiego cosa succede a livello mentale”

La redazione di Vocegiallorossa.it ha intervistato in esclusiva Roberto Civitarese, mental coach dei calciatori professionisti. Ecco le sue dichiarazioni ai nostri microfoni:

Un argomento di discussione continua è relativo al fattore-ambiente: la piazza incide così tanto?
«La piazza è uno dei fattori che entrano in gioco sull’aspetto  emozionale e motivazionale. La piazza, i tifosi e tutto l’ambiente sono tra gli elementi più importanti e determinanti al fine dei risultati. La società deve delineare una linea programmatica, un progetto e illustrarlo chiaramente alla piazza,  per coinvolgerla, chiedendo poi il sostegno incondizionato dei propri tifosi».

Sembra che a Roma si amplifichi tutto rispetto ad altre piazze…
«A Roma ci sono 6-7 canali radiofonici che parlano solo di calcio e questo certifica che c’è un seguito importante. Proprio per questo è importante essere chiari con il progetto tecnico e gli obiettivi. Faccio un esempio: vinci 3-0 con il Barcellona e per celebrare la vittoria ti fai il bagno nella fontana (riferimento al presidente Pallotta, ndr). Con questo gesto così plateale è evidente che crei delle aspettative elevate, oserei dire delle illusioni. Poi quando le cose non funzionano diventa tutto un giustificare. Occorre più chiarezza e maggior equilibrio nel rapporto con i tifosi. Io credo che le società di calcio debbano considerare i propri tifosi come una risorsa importante. I tifosi ovviamente non devono condizionare le scelte societarie o il mercato ma devono sostenere la squadra sulla base di un progetto tecnico che la società dichiara pubblicamente assumendosene la responsabilità».

Il problema è che sembra che i tifosi della Roma siano ormai percepiti come “clienti”…
«Lancio una provocazione: vale di più il tifoso che compra una maglia celebrativa da 100 € o il tifoso che va a sostenere la squadra ogni domenica? Vedere il tifoso come cliente mi sembra limitativo. I calciatori hanno un grande desiderio, ogni domenica, ovvero regalare emozioni ai propri tifosi. Questa, per ì calciatori, è una leva motivazionale molto forte. La società deve dare il giusto ruolo ai tifoso, a tutti i tifosi non solo quelli che vanno allo stadio. Le società dovrebbero dichiarare gli obiettivi per essere chiari con i propri tifosi ma spesso non lo fanno e questo è un errore. Esempio: quando vai in macchina, metti prima la destinazione e poi segui un percorso, invece alcune società partono senza impostare la destinazione, nel senso che dove si arriva si arriva. In un contesto sociale moderno, un tifoso non può essere considerato solo come un fruitore di servizi, deve essere considerato come un’anima importante per le sorti del club. I tifosi hanno il compito di sostenere la squadra soprattutto nei momenti di difficoltà. Ricordo che Garcia, arrivato a Roma, dopo la finale persa in Coppa Italia contro la Lazio nel 2013 fu subito contestato e invitato ad andare via, tant’è che lui rispose “Chi critica è tifoso della Lazio. Il tifoso della Roma non critica la sua squadra ma la sostiene”. Il messaggio di Garcia fu importante: noi abbiamo bisogno del sostegno dei nostri tifosi».

L’unico modo, però, per il tifoso, per esprimere malumore è contestare la squadra allo stadio…
«La contestazione è legittima, ma se la squadra è stata costruita male e ha difficoltà, la contestazione che benefici può portare?»

Una squadra che passa dalla semifinale di Champions League e fallisce completamente la stagione seguente, con l’ad, il ds e l’allenatore che vanno via, dal punto di vista mentale che può succedere?
«Le scelte di mandare via tutti certificano il fallimento di un progetto. Purtroppo spesso si sottovaluta che ogni progetto, per essere attuato, ha bisogno del suo tempo. Il club dovrebbe dichiarare in quanto tempo vuole raggiungere determinati obiettivi. Mi pare del tutto evidente che quando mandi via tutto il management stai certificando che il progetto non ha funzionato. È chiaro che i calciatori risentono di tutto questo perché sono parte integrante della società. Azzerando il management non si danno segnali positivi, si crea insicurezza e instabilità».

La Roma ha spesso venduto per problemi di bilancio: cedere giocatori come Nainggolan o Strootman, due giocatori leader, quanto può incidere a livello di gruppo?
«È chiaro che se un giocatore va via può incidere, se un gruppo è amalgamato e c’è un cambiamento, i giocatori ne risentono. Tutti i cambiamenti hanno bisogno di tempo per essere assimilati, così si tolgono delle certezze, hai tolto dei giocatori determinanti per quella stagione ed è chiaro che vengano meno delle certezze, è evidente che un giocatore di qualità che viene ceduto toglie certezze».

La Roma ha fatto bene a fare “tabula rasa” e ripartire da zero dopo gli addii di Totti e De Rossi?
«È una scelta, si è deciso di ripartire da capo e dipende che tipo di segnale si voglia dare. Per me, più il cambiamento è morbido meglio è, se è troppo drastico può recare problemi. Il cambiamento va fatto in maniera graduale, è normale che poi ci debba essere ma deve essere un cambiamento fatto per migliorare perché quando si fallisce non si salva niente. Mentalmente i calciatori devo essere proiettati alle cose positive. Quando si perde, l’analisi del match deve partire dalle cose positive, non da quelle negative. Il nostro cervello funziona per immagini, quindi devono essere proiettate immagini positive, che possano portare a rafforzare la propria identità».

Cosa può scattare in un calciatore come Florenzi che, una volta capitano, viene messo in discussione dall’allenatore?
«È chiaro che lo stato d’animo in quel momento è negativo, perché ti senti giudicato e non all’altezza. Ma ciò che sei dipende da te non da altri. Tu puoi decidere chi sei e cosa fare, quindi puoi ottenere tutto ciò che desideri, indipendentemente da ciò che pensano gli altri. Al calciatore dico che se gioca titolare o parte dalla panchina, le sue qualità restano quelle. Chi vive una situazione come quella di Florenzi, ha la possibilità di rimboccarsi le maniche e lavorare ogni giorno facendo di più di quello che ha fatto fino a ieri. Però se poi non vene preso in considerazione è normale che cerchi una realtà che possa apprezzare maggiormente il suo valore. Ciò che vuole il mister è un parere soggettivo, non oggettivo. Soggettivi sono anche i voti assegnati alle prestazioni dei calciatori: non si può mettere in discussione, proprio perché è un criterio personale. Al calciatore e alla sua crescita non è funzionale sapere il voto assegnatogli dal giornalista. Tornando a Florenzi, la reazione dipende dal calciatore, o meglio dalla persona. Se il  mister nello spogliatoio urla, non è automatico che tutti abbiano una reazione positiva. Non posso sapere come reagisce Florenzi, ma le possibilità sono due: o si convince di dover cambiare aria, e per quel che vedo non è così, oppure regredisce lavorando ancora più forte per dimostrare ancora una volta il suo valore».

Se un calciatore vive di alti e bassi e le sue prestazioni dipendono dalla giornata, come si allena?
«È molto semplice. Prima cosa, bisogna far capire che, nei giorni in cui si allena e gioca male, sta perdendo un’occasione importante per fare un passo in avanti verso il proprio obiettivo, mettendo a rischio la sua intera carriera. Deve capire cosa fare per arrivare al campo con la motivazione al lavoro sempre al massimo».

Qui a Roma c’è Dzeko, un calciatore che ha bisogno della fiducia per dimostrare il proprio valore. Questo è un limite? Come può giocare sempre al massimo, se possibile?
«Io credo che sia possibile. Ad esempio, seguo da 8 anni De Silvestri, e nel corso del tempo lui migliora continuamente. È la mia predisposizione mentale al lavoro, sempre incentrata al miglioramento. L’obiettivo deve essere sempre quello di migliorare rispetto al giorno precedente, come un nuotatore che cerca sempre di abbassare il proprio tempo. Nel calcio c’è un imprinting nella mente dei calciatori: spesso ci si allena in modo blando».

Schick è stato il calciatore più pagato della Roma, non riuscendo mai a trovare posto. C’è stato un errore nella gestione o un limite caratteriale nel calciatore?
«Credo sia più un errore nella gestione del calciatore. Se si prende un calciatore di prospettiva ovvero che in questo momento esprime un valore inferiore al livello della squadra, va accompagnato e seguito nel suo processo di crescita e miglioramento. Quando ha visto di essere in difficoltà si è fatto aiutare da un mental coach,  e se ora fa bene al Lipsia non è perché ha cambiato squadra ma semplicemente perché ha proseguito il suo percorso di crescita. Lui faceva bene in allenamento e non in campo? Vuol dire che le caratteristiche tecniche e qualitative ce le ha. La differenza sta nell’attenzione e nella pressione, elementi che non ci sono in allenamento, così come capita nelle amichevoli estive: non c’è l’aspetto emozionale. Se quando entra in gioco l’aspetto emozionale ci sono dei problemi, vuol dire che c’è un blocco nel calciatore, e questa cosa va risolta. La Società deve chiedersi se è pronta per affrontare una situazione come questa».

Quando in una squadra ci sono tanti infortuni di tipo muscolare, è possibile che ci sia una paura collettiva che porta ad un maggior numero di infortuni, o è solo fatalità?
«La paura nasce da una convinzione, e se le cose vengono sempre ripetute nasce la convinzione. Se viene sempre sottolineato il grande numero di infortuni occorsi alla Roma, io calciatore ci penso più frequentemente, creo una convinzione nella mia testa, da cui scaturisce la mia paura la quale mi porta a fare scelte sbagliate. Una convinzione nella Roma, ad esempio, è che i campi siano una delle cause degli infortuni, quindi se tende ad avere questa paura del campo. Gli infortuni muscolari, però, non nascono solo dai campi, ma anche dal metabolismo e da funzioni biologiche. Se tutti fossero perfetti sotto questo punto di vista, allora le cause sarebbero da ricercare in un fattore esterno. Ma nella realtà, c’è sempre una serie di concause che portano ad un infortunio muscolare. Una delle cause principali, è proprio il condizionamento mentale dell’infortunio, col calciatore che diventa teso e il muscolo più esposto ad un infortunio».

Quindi quando un calciatore torna da un infortunio e, clinicamente, è pronto, ci mette del tempo per rientrare proprio per eliminare questo pensiero…
«Certo, perché se il calciatore ha in testa la paura del re-infortunarsi, fa tutto con meno elasticità, in modo più contratto, andando in campo con la paura. Se l’approccio è diverso, e il calciatore non vede l’ora di tornare a giocare e fare una partita, cambia tutto e, di conseguenza, anche i tempi di recupero».

Qui a Roma c’è una calciatrice della squadra femminile, Di Criscio, che si è rotta il crociato: non avendo un vero contratto, quali differenze ci sono nel suo recupero, rispetto a un calciatore professionista, tutelato da una forma contrattuale?
«La differenza la fa la motivazione. Non è una questione solo di contratto: il pensiero può essere di voler rientrare perché si ama il lavoro che si fa. L’importante è che ci sia una motivazione che ti spinge, qualsiasi essa sia. Nella mia carriera ho lavorato con molti giocatori, e ognuno ha avuto una motivazione diversa. Spesso si confonde il mental coach con il motivatore: il calciatore non va motivato, ma deve avere dentro di sé la motivazione per recuperare dall’infortunio. Io posso solo dare gli strumenti necessari. Il contratto può essere una motivazione, ma anche il voler dimostrare di essere una persona forte lo può essere».

Come va gestito un giovane calciatore che parte inaspettatamente molto bene? Ti è capitato che ti chiedano di voler tornare “sulla terra”?
«Non è mai capitato, perché credo sia il meccanismo più facile per fallire. Quando sento dire che bisogna restare con i piedi per terra non capisco: qual è il senso,  il motivo? È un luogo comune sbagliato. Legandoci al discorso delle immagini, vedere un calciatore con i piedi per terra è un’immagine statica. Inoltre, il non voler creare aspettative troppo alte o illusioni è anch’esso sbagliato. Chi stabilisce quanto deve essere alta un’aspettativa? Le vittorie non sono mai frutto del caso: prendendo l’esempio del Leicester, è impossibile che nello spogliatoio nessuno abbia mai pensato di voler vincere la Premier. Si tratta di un sogno che va programmato e coltivato».

Perché si dicono frasi come “la Juventus fa un campionato a parte”?
«Sei tu a far vincere il campionato alla Juventus se parti con questa mentalità. Quest’anno la differenza l’ha fatta Conte: lui quando è arrivato, come prima cosa ha detto di essere lì per vincere, e non per far vincere un’altra squadra. Quando dici che una squadra è inarrivabile, ti stai creando un limite. Qui c’è tutta la differenza. Ad esempio, qualche settimana fa il Cagliari ha messo sotto l’Atalanta. Maran aveva detto ai suoi ragazzi di dover prendere esempio dal  Manchester City. Ha focalizzato l’obiettivo, ha visto che era possibile farlo, ha capito che era possibile replicarlo e infine ha lavorato con i giocatori per metterlo in pratica. L’atteggiamento mentale è stato quello di copiare il City:  avere la convinzione mentale di poterlo fare. Tutto ciò che puoi sognare, lo puoi realizzare».

Ora i calciatori sono in vacanza: è giusto che stacchino o devo restare concentrati sul prossimo match?
«Un calciatore professionista è tale anche quando è in vacanza, e deve sempre ragionare sotto questo punto di vista. Alcuni hanno un tasso tecnico superiore alla media, e nella loro testa c’è la convinzione di poter fare tutto ciò che si vuole senza intaccare la qualità. I calciatori che hanno avuto una vita sregolata hanno sempre mantenuto lo stesso livello durante la carriera? La risposta è negativa»

Fonte: vocegiallorossa.it

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